
Da più di un anno sentiamo parlare quotidianamente di “ristori”, “sostegni”, “aiuti” o “contributi”. L’unica categoria rimasta drammaticamente fuori è stata l’adolescenza.
È da più di un anno ormai, da quando la pandemia ci ha chiusi in casa o ci ha concesso rarefatte ore d’aria, che sentiamo parlare quotidianamente – con tutta la fantasia italica nel coniare termini e parole – di “ristori” o “sostegni” o “aiuti” o “contributi”, e chi ne ha più ne metta, per sostenere situazioni e “categorie” maggiormente colpite dagli eventi. Dietro queste parole, antiche o neologismi, c’era e c’è un risvolto essenzialmente economico, ma non solo. Sebbene qualunque idea o intervento, alla fine, possa sempre essere tradotto in “moneta”, aver cercato di garantire all’infanzia, durante il lockdown e dintorni, che almeno uno dei genitori possa essere a casa ad accudirli o possa almeno esserci una/un baby sitter è, anche questa, una forma di “ristoro”. Così come, sul fronte anagraficamente opposto, concettare su forme e modalità di assistenza domiciliare (a partire, o finire, dalle vaccinazioni a casa) è, altrettanto, una forma di “ristoro”. Se poi c’è tutto da discutere sull’efficacia, la tempestività e l’effettiva erogazioni dei ristori ipotizzati, spesso rimasti solo parole, quantomeno – appunto – se ne è parlato.
L’unica categoria rimasta drammaticamente fuori, anche solo dalle mere progettualità, è stata l’adolescenza. O meglio, riguardo all’adolescenza si è parlato esclusivamente in termini di scuola in presenza o DAD (oggi DID, acronimo incomprensibile ma funzionale alla frenesia di utilizzare sempre termini nuovi per nascondere, forse, la mancanza di nuove idee).
Ma “la scuola”, lo ripeto spesso in queste settimane, sebbene sia una parte molto importante della vita di un adolescente, né è – appunto – una parte. Frequentando e lavorando da anni con gli adolescenti, ma soprattutto ascoltandoli, se c’è una cosa di cui posso dirmi certo è il loro profondo e giusto “fastidio” (per usare un eufemismo) nell’essere considerati dagli adulti esclusivamente nella loro veste di “studenti”. “Come va la scuola?” o la versione estiva: “Sei stato promosso?” sono quasi le uniche interlocuzioni che noi adulti riusciamo ad avere con un’età che ha, invece, milioni di sfaccettature, interessi, sogni e ambizioni. Certamente molto più della nostra “maturità”.
Da qui all’adolescenza senza ristori il passo è brevissimo, direi addirittura scontato. I “ristori” anti-Covid per l’adolescenza, al di là di non averli messi in pratica (come del resto sta capitando anche in altri contesti), non li abbiamo mai nemmeno pensati. E il dramma maggiore è che questa lacuna non è stata una “scelta politica” (che si può sempre motivare e di cui ci si può assumere la responsabilità), ma è derivata da una manifesta incapacità collettiva.
Se riguardo ai bambini e agli anziani, che conosciamo meglio e di più, sappiamo quantomeno interpretare e riconoscere esigenze e bisogni, poco o nulla sappiamo – tranne che vanno a scuola – degli adolescenti. Sappiamo poco o nulla, a partire dagli stessi genitori, perché li abbiamo sempre catechizzati, stigmatizzati, classificati, giudicati, o anche accontentati e viziati fino all’eccesso, ma mai ascoltati.
Laboratorio Adolescenza che da anni – orgogliosamente controcorrente – promuove iniziative che partono proprio dall’ascolto degli adolescenti e si sviluppano dando loro la parola, anche in questo frangente – ne parliamo in altra parte del giornale – ha una sua idea e una sua proposta operativa in merito. Ma al di là di quanto riusciremo a fare, anche in base alla sensibilità di istituzioni e decisori e alle collaborazioni che riusciremo ad attivare, già solo ascoltare gli adolescenti, far percepire loro che il nostro interesse e la nostra attenzione va ben al di là di voti e verifiche, sarà un primo importante ristoro.
Presidente Laboratorio Adolescenza