
Forse interrotti (da noi adulti), ma certamente non “rotti”. Chi li frequenta nelle scuole sa che hanno sufficiente energia e tanti anticorpi per proseguire il loro percorso di crescita
Scrive Emanuele Trevi nel bellissimo Due vite: “La letteratura deriva la sua stessa ragion d’essere dal rifiuto di ogni generalizzazione: è sempre la storia di quella persona, murata nella sua unicità, artefice e prigioniera della sua singolarità”. L’autore scrive queste righe in contrapposizione alla psichiatria, la quale, a suo dire, “per essere efficace deve astrarre, ridurre la molteplicità dei casi e dei sintomi a delle costanti, creare delle definizioni (…)”1
Negli stessi giorni mi intrattenevo con un libriccino di ben altro tenore, divertente e divertito nel raccontare dei fatti di scuola. “Non ha anamnesi, non ha casistica medica, non ha una posologia, il professore non ha niente di niente. Solo casi particolari perché se ogni uomo è diverso ogni studente è un universo. Il fatto che, tutti insieme, non costituiscano un bestiario (…) addensabile sotto titoloni in corpo diciotto è una delle cause dello scoramento e della superiorità con la quale il professore guarda il mondo”. Chi scrive è Chiara Valerio (Nessuna scuola mi consola), che è tante cose insieme ma che è stata a lungo docente nelle scuole superiori, e che quindi le “bestie” le conosce bene. Quando mi è stato chiesto di scrivere un pezzo sull’adolescenza interrotta, ho provato lo stesso scoramento di cui parla la Valerio, e al contempo, nelle parole di Trevi, ho ritrovato la convinzione che dirigenti scolastici e professori siano, un po’ come i letterati, incapaci di generalizzare ma sempre focalizzati sulla storia di quella persona, o, meglio ancora, sugli strumenti affinché quella persona (bambino/a, ragazzo/a, giovane adulto/a) possa costruire la propria storia formativa.
Chi pratica la formazione (non chi ne scrive a livello ministeriale o chi ne fa oggetto di ricerca accademica) sarà sempre in difficoltà nel formulare una generalizzazione. Un po’ per pudore, non volendo invadere campi altrui, un po’ perché non lo sa davvero. Chiedetegli di Marco, di Rebecca, di Salvatore, chiedetegli di quello dell’ultima fila, di quello che arriva sempre in ritardo, chiedetegli di quella coi capelli viola. Il professore/la professoressa in questione vi racconterà tutto di quella persona, che “ultimamente è un po’ depressa, che però ora sta un po’ meglio, che ho visto la madre ma forse è meglio che le parli di nuovo, che secondo me si sta lasciando andare…”
Da dirigente di un liceo di 1300 studenti potrei rispondere allo stesso modo. Potrei raccontarvi dei colloqui che ho fatto in questi mesi con alcuni genitori, e dirvi che alcuni di essi mi hanno portato un vissuto di sofferenza che da tempo non mi arrivava con tanta potenza e tanta paura: paura che i figli volessero mollare, paura che non volessero più uscire di casa, paura dei loro tagli, delle loro rabbie, della loro apatia. Ma nel farlo non vi starei parlando dell’adolescenza, ma di Lorenzo, di Alice, di Consuelo.
Io non so parlare di adolescenza. Io posso parlarvi degli adolescenti. E quelli che vedo (mentre vi scrivo la scuola ha riaperto da pochi giorni) non sono ragazzi interrotti. Di sicuro non sono rotti. Mentre varcano il portone di ingresso, vedo occhi vivaci dietro le mascherine, spalle larghe che sorreggono zaini pesanti, gambe lunghe e veloci quando corrono, violando ogni divieto, ai distributori di merendine. Se dovessi, contravvenendo a quanto fin qui scritto, provare a fare una generalizzazione, direi che l’adolescenza sta ancora, e forse stranamente, abbastanza bene. Perché pur senza vaccino le nostre ragazze e i nostri ragazzi hanno anticorpi per stare sufficientemente bene e proseguire con sufficiente energia il loro percorso di crescita formativa e umana.
Certo, ci abbiamo provato, a bloccare loro la strada, privandoli della scuola in presenza e di ogni luogo di sana socialità. Sul perché sia stato fatto, sul perché di alcune scelte politiche e governative altri meglio di me hanno scritto, a partire da Annalisa Cuzzocrea nel suo ultimo lavoro dal titolo Che fine hanno fatto i bambini.
Ma questo è ciò che è stato. Ciò che più mi preoccupa è l’adesso. Il timore che dalla dimenticanza, perché questo è stato, complice una cultura familistica per cui l’infanzia e l’adolescenza in Italia sono un affare di famiglia, si passi a un eccesso di narrazione. L’adolescenza malata, l’adolescenza che si taglia, l’adolescenza che intasa le neuropsichiatrie. Ovvio che questa sia una narrazione necessaria e importante. Ma non può essere l’unica.
E’ (solo) un capitolo doloroso di una storia molto più grande, che giornali e televisione non hanno ancora imparato a raccontare.
Chiedete al mondo della scuola come stanno i ragazzi. La maggioranza dei professori vi dirà che i ragazzi sorridono ancora, trasgrediscono le regole come sempre hanno fatto, si lamentano per le troppe verifiche e fingono ancora svenimenti al rischio dell’interrogazione di latino. Sdrammatizzo? Forse. O forse è di chi si occupa di formazione questa visione ottimistica delle cose, questa ferma convinzione che per ogni studente ci sia un futuro davanti. Ma questo futuro va costruito, e non possiamo permetterci di sbagliare ancora, dopo che tanto presente, e tanta presenza, è stata loro sottratta.
Eppure ho la sensazione che qualcosa non vada per il verso giusto, se tra i fondi che il Ministero sta assegnando alle scuole tanta insistenza viene data all’acquisto di materiale igienizzante e ai servizi di psicologia scolastica. Tutto utile per carità, meglio mani pulite che sporche, meglio uno spazio di ascolto che il “silenzio assordante”, ma è davvero questo quello di cui hanno bisogno i nostri ragazzi? O è piuttosto questo il tentativo, maldestro, di lavarci la coscienza oltre che le mani? Peggio ancora, non sarà questo il tentativo di portare avanti il percorso di medicalizzazione e patologizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza iniziato alcuni anni fa, e che purtroppo ha varcato le mura delle scuole con danni forse non più riparabili?
Questo sì sarebbe un grave errore. E questo sì rischierebbe di interrompere la storia dei nostri giovani a un fotogramma, a un capitolo della loro lunga vita, inchiodandoli alla lettura dei loro bisogni (speciali o banali che siano) e delle loro mancanze, anziché spronarli ad andare avanti, a proseguire il loro cammino, magari con le mani sporche di terra e la fronte sudata dopo l’ennesimo sforzo.
Dirigente scolastica