
“È dall’individuazione degli standard minimi da garantire a bambini e ragazzi che occorre partire per aiutarli a crescere come uomini liberi e responsabili”. Appunti di Fulvio Scaparro sull’adolescenza a partire dalle Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini.
Il Cardinale Gianfranco Ravasi cura da molti anni sulla prima pagina della Domenica del Sole 24 Ore una rubrica, dal titolo ‘Breviario’, che è una miniera di alta e libera cultura esposta con chiarezza e semplicità. Il 3 settembre 2023 ha rilanciato il pensiero di Pier Paolo Pasolini sull’educazione ricordando una delle sue più famose frasi, tratta da Lettere Luterane, pubblicato nel 1976, a pochi mesi dalla morte del suo autore. è una raccolta di articoli che Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera e sul settimanale Il Mondo. Ecco le parole citate:
“Se qualcuno ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare. Cioè, col suo amore o la sua possibilità di amore.”
Per quanto mi riguarda, chiuderei questa puntata dei miei Appunti con questa meravigliosa sintesi di pedagogia pasoliniana ma non riesco a resistere alla tentazione di fare qualche variazione sul tema.
Nel 2018, in epoca ante-Covid-19, ho partecipato a un convegno presso l’ASST Fatebenefratelli-Sacco dal titolo “Quando tutto cambia. La salute psichica in adolescenza 2.0.”. In quell’occasione veniva presentato il libro di Claudio Mencacci e Giovanni Migliarese dallo stesso titolo del convegno [Pisa, Pacini Editore] che, a chi come me non è medico ma si occupa di ragazzi e giovani adulti come psicologo e psicoterapeuta, fornisce le basi scientifiche necessarie per un intervento correttamente integrato nel ‘disagio’ adolescenziale. Scrivo ‘disagio’ tra virgolette perché il termine molte volte si rivela un eufemismo che copre pudicamente una vera e propria infelicità.
“Tutto è neo. L’abbaglio del nuovo” era il titolo di un illuminante articolo scritto dal costituzionalista Michele Ainis [Repubblica, 8 aprile 2012] in cui veniva messa in evidenza la vera e propria smania del ‘nuovo’ che attanaglia buona parte di noi. Iniziava così: “Non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole, ammonisce l’Ecclesiaste (1,10). Eppure la cifra del nostro tempo esprime una tensione vorticosa verso il nuovo, l’inedito, il moderno. Ha in odio i retaggi del passato, nega le tradizioni così come la storia (quanti italiani la conoscono?). Coltiva il mito dell’eterna giovinezza, magari con l’aiuto del chirurgo plastico. Perché è un tempo rapido e cangiante, quello che stiamo attraversando. Un tempo d’aerei e di cellulari e di computer, la cui velocità azzera le distanze, sicché annulla pure il tempo. E perché l’umanità, da sempre, apprezza ciò che si manifesta per la prima volta, il figlio senza genitori.”
Il nuovo assoluto, dunque, l’inedito, l’inaudito. Fino a circa tre secoli fa, l’adolescenza come stagione della vita con un inizio e una fine, non esisteva. Si era prima infanti, poi bambini fino a quando si era pronti per riprodursi, lavorare, combattere. Dopo si entrava nel mondo come apprendisti della vita, a cura e agli ordini dei più vecchi e, pur restando ragazzi e giovani con i pregi e i difetti che conosciamo, non c’era interesse, soprattutto economico, a inventare lunghissime soste in una sorta di camera di decompressione o, se preferite, in una specie di sala d’attesa della maturazione, come quelle che oggi conosciamo e alle quali abbiamo dato il nome di ‘adolescenza’.
I ragazzi e le ragazze, quelli che oggi chiamiamo adolescenti e vivono in un ambiente profondamente mutato e soggetto ad apparenti o reali cambiamenti sempre più rapidi nel giro di una stessa generazione, non hanno subìto in profondità una mutazione nel senso che la biologia dà a questo termine. Abbiamo documentazioni provenienti da un passato più o meno remoto che dimostrano come certi comportamenti che oggi ci affascinano o ci preoccupano negli adolescenti nostri contemporanei, fossero ben presenti da sempre. Da questa documentazione risulta con tutta evidenza che quella che oggi chiamiamo ‘adolescenza’ sarebbe stata meglio chiamarla ‘l’età di Parsifal’, da parsi, puro, e fal, folle. È l’età dei folli puri, non quella alla quale pensavano gli psichiatri dell’Ottocento quando hanno coniato il termine ebefrenia mettendo una pietra tombale sulla bella follia dei ragazzi. Quegli sprazzi di pura vitalità che mi auguro abbiate almeno per poco sperimentato, cari lettori e lettrici, quando avete fatto preoccupare i vostri genitori. Ci viene in aiuto ancora una volta il Pasolini delle Lettere luterane quando dice ai ragazzi:
“Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro. […] T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.”
Quando si parla del difficile rapporto con gli adolescenti bisogna ricordarsi che le difficoltà con i ragazzi ci sono sempre state, anche quando non si parlava di adolescenza, ma semplicemente di giovani. Su una tavoletta di un dignitario del tempo di Hammurabi, il sesto re di Babilonia, risalente a più di 1700 anni avanti Cristo si poteva leggere, più o meno, che, “non se ne può più dei giovani d’oggi, perché si picchiano tra loro, ingravidano le ragazze e disprezzano i vecchi”. Molto più tardi, Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) scriveva nella Retorica un memorabile passo sui ‘giovani d’oggi’:
“Quanto al carattere, i giovani sono inclini ai desideri, e pronti a fare tutto ciò a cui il desiderio li spinge. Fra i desideri di ordine fisico, cedono soprattutto all’attrazione amorosa, e sono incapaci di tenerla a freno; ma sono volubili, e facili alla noia, in tutti i loro desideri, e si accendono enormemente, e subito si raffreddano: ogni atto di volontà è in loro acuto ma breve, come la fame e la sete in chi è infermo; e sono passionali e impulsivi e inclini all’ira. E sono preda delle loro passioni, perché per brama di protagonismo non sopportano d’essere poco considerati, ma fremono di rabbia se solo credono d’aver patito un’offesa. E bramano d’essere i primi, bramano anzi la vittoria (la giovinezza vuole supremazia, e la vittoria è una supremazia) e desiderano tutto questo ben più che la ricchezza (non desiderano la ricchezza perché non ne hanno ancora provato il bisogno […]); e hanno buon cuore, non cuore cattivo, perché ancora non hanno assistito a innumerevoli cattiverie; e sanno fidarsi, perché ancora non hanno subito innumerevoli inganni; e sanno sperare, perché, come gli ubriachi, sono pieni di naturale ardore, e perché ancora non hanno provato innumerevoli disgrazie. E quasi sempre vivono nella speranza, perché la speranza è del futuro, la memoria del passato, e agli occhi dei giovani il futuro è lungo, il passato è breve: all’alba della vita nulla si ricorda, ma tutto si spera. E per questo si lasciano ingannare (sono facili alla speranza), e sono pieni di coraggio (sono impulsivi e speranzosi, e l’impulsività fa sì che non si tema, la speranza fa sì che si osi, perché nessuno ha paura quando è in preda all’ira, e la speranza d’un successo rende audaci); e sono pieni di pudore (perché non credono che esista altro di bello, ma si attengono alle norme sociali in cui si sono formati), e sono pieni di grandezza d’animo (perché ancora non hanno subito le umiliazioni della vita, ma non conoscono costrizioni, e ritenersi degni di cose grandi è grandezza d’animo: così sente chi sa sperare). E preferiscono le belle azioni alle azioni utili, perché vivono obbedendo al carattere più che al calcolo, e il calcolo tende a ciò che è utile, la virtù a ciò che è bello. E amano l’amicizia, e amano i loro amici più che in qualsiasi altra età, perché godono della comunanza, e nulla giudicano in base all’utile, e perciò nemmeno gli amici. E tutti i loro errori sono errori per eccesso, errori per troppo impeto, […] e credono di sapere tutto, e si intestardiscono (questa è la causa dei loro perenni eccessi), e se compiono ingiustizie lo fanno per tracotanza, non per malvagità. E sono inclini alla compassione perché stimano tutti nobili e grandi (perché misurano il prossimo in base alla loro innocenza, sicché credono che il loro prossimo soffra mali ingiustificati), e amano il riso, e perciò sono facili allo scherzo, perché lo scherzo è un’educata tracotanza.”
Nel Racconto d’inverno di Shakespeare (1564-1616), un vecchio pastore fa gli stessi commenti sui giovani che continuano a picchiarsi tra loro, a correre dietro alle ragazze e a non rispettare gli anziani.
Dobbiamo aspettare il XIX secolo per leggere qualche variazione. Oscar Wilde scrive “non se ne può più dei giovani d’oggi, non rispettano più i capelli tinti”. Molto di più di una battuta.
Che le difficoltà tra adolescenti e adulti ci siano sempre state non significa che tutto si ripeta senza variazioni di rilievo nel nostro corpo e nelle nostre relazioni. I ricercatori hanno dimostrato con dovizia di documentazione scientifica quanto il funzionamento del nostro cervello si stia modificando sotto la pressione dello sviluppo tecnologico rapido, al limite del frenetico, e quanto le relazioni sociali risentano di questi cambiamenti. È fondato dunque che quando pensiamo alla nostra adolescenza o a quella dei nostri padri e nonni e la confrontiamo con quella dei nostri giorni, tutto ci sembra cambiato (di solito in peggio, vista la nostra tendenza a enfatizzare le presunte virtù del tempo andato). Tuttavia, attenzione a ritenere che i ragazzi di oggi siano snaturati, non nel senso peggiorativo del termine ovviamente, ma in quello di “sradicati dalla natura”. Non possiamo pensare che in trenta, cinquanta o settant’anni vi sia stata, nell’essere umano, una mutazione, cioè un’alterazione, spontanea o indotta, del patrimonio genetico. Avvengono sì dei mutamenti, anche imponenti, nelle nostre reazioni ad un ambiente in rapidissima trasformazione.
In altre parole, avviene in noi quello che possiamo osservare nel mare. Nello strato superficiale, i primi dieci metri (che sembra essere quello che più interessa noi e alcuni meteorologi), c’è la massima variabilità di condizioni: la temperatura cambia giornalmente e stagionalmente, l’acqua è sottoposta a continui rimescolamenti e il mare può mostrarsi in ogni sua possibile forma, dalla calma piatta alla tempesta più furiosa. Ma negli strati profondi, nel buio degli abissi marini si muovono lente le correnti che condizionano il clima del nostro pianeta. Non confondiamo la cronaca della nostra specie con la sua storia. La cronaca manifesta variazioni spettacolari, ma nel profondo la specie si muove lentamente come le correnti profonde del mare.
Ricordo i tre momenti fondamentali che costituiscono la base dello sviluppo infantile e che in ogni tempo e luogo sono stati considerati insostituibili per garantire l’equilibrato sviluppo cognitivo, affettivo, sociale e morale del bambino. Questi tre momenti riguardano tutti noi, non solo i bambini:
- accettazione, contenimento, rispetto, ascolto [Winnicott parla di holding];
- cura, accudimento [handling];
- introduzione al mondo, promozione delle capacità, imparare a camminare con le proprie gambe [object presenting].
Ciascuno di questi momenti è preparatorio all’altro e tutti sono interdipendenti, nel senso che, ad esempio, non si ha buona cura senza accoglimento e non si promuovono efficacemente le capacità di alcuno, se non lo si accetta, accoglie e cura. Quando queste fasi, in larga misura sovrapposte le une alle altre, e che nel loro insieme potrebbero dare un contenuto all’abusata parola ‘amore’, non sono rispettate, si ha la negazione della responsabilità e dell’amore, la sfiducia, il disinteresse, l’abbandono, l’indifferenza.
Oggi quelli che chiamiamo ‘adolescenti’ si trovano a crescere in un mondo profondamente e radicalmente cambiato già rispetto a quello che conoscevano i loro genitori, e se i loro sentimenti profondi non sono cambiati è cambiato invece, e tanto, il mondo adulto che oscilla tra la paura dei giovani, il tentativo di arruffianarseli imitandoli e blandendoli, l’incapacità di dare loro esempi positivi di maturità e responsabilità, l’impossibilità di fissare rituali che segnino con chiarezza le tappe dello sviluppo.
È disperante esigere dai giovani senso di responsabilità, quando è così raro vedere, in noi stessi e in chi ci rappresenta, quello che un tempo era chiamato “senso dello Stato”, cioè la capacità di agire al di là dei nostri interessi personali, immaginando e lavorando per il benessere di una comunità che esisterà quando noi non ci saremo più. Non so con quale coraggio possiamo far prediche quando poi in realtà molte volte ci accontentiamo e accettiamo che avvengano delle cose inaccettabili e stiamo zitti per quieto vivere. In linea di massima ritengo che la società adulta abbia l’adolescenza che si merita, ma non è consigliabile arrendersi sulla base di affermazioni generiche.
Come ricordava Aristotele nel passo sopra riportato riferendosi ai giovani, in tutti i bambini, in gran parte degli adolescenti e in molti di noi la pace e il rispetto, l’onestà, la generosità, l’impegno, l’utopia, costituiscono spinte e motivazioni tanto forti da indurmi a non disperare per il futuro. Ma qualcosa deve cambiare, innanzi tutto negli adulti.
L’adulto dovrebbe essere disponibile senza attendersi che l’adolescente faccia altrettanto: disponibilità vuol dire “presenza non intrusiva”, essere pronti a dare, consigliare, accogliere, raccontare le proprie esperienze, i propri sogni, dare esempio, dire ‘no’, ma anche sostenere, incoraggiare, quando occorre, evitando di sostituirsi al giovane e di rafforzarne la dipendenza, gettando così le basi di future dipendenze, interrompendo il piagnucolio del giovane, del ragazzo o della ragazza che si lamenta per tutto ciò che non ha avuto e che non ha, perché l’autocommiserazione non è una via di liberazione. Meglio che il ragazzo protesti, meglio che il ragazzo se la prenda con qualcuno, piuttosto che pianga e si lamenti, abbassandosi all’accattonaggio degli affetti per sopravvivere. Noi dobbiamo fare in modo che questa sorta di accattonaggio non si diffonda, anche se molte volte l’esempio arriva dagli stessi adulti, lamentosi, rancorosi, perennemente in credito con il mondo.
Io definisco la maturazione come il processo di acquisizione della capacità di separarsi senza che questo impedisca al soggetto di stabilire nuove relazioni, alla ricerca di nuovi e più soddisfacenti equilibri. La precarietà di ogni equilibrio raggiunto rende continua la ricerca, relative e provvisorie le diverse tappe raggiunte, le diverse maturità, fisiche, affettive, cognitive, morali e sociali. Secondo questa definizione, da uno stato fusionale in cui il neonato è ancora soggetto pienamente e sanamente immaturo, nel corso dello sviluppo si afferma con sempre maggiore evidenza la capacità di separarsi e stabilire nuove relazioni e scelte assumendosene la responsabilità.
Disponibilità da parte di un adulto, di un insegnante o di un genitore, significa dare un tranquillo esempio di maturazione, quale può dare soltanto chi ha vissuto tanti distacchi e tante unioni, ma non ha perduto la voglia di vivere. Un adulto capace di spiegare e trasmettere ai più giovani il senso del limite, il rispetto delle regole e perfino, udite! udite!, l’auto-disciplina senza la quale certi ostacoli non si superano. Un adulto, quindi, che non sfoghi sui ragazzi le proprie frustrazioni quando sanziona un comportamento inaccettabile. Un adulto che ricorda la propria adolescenza e sa di avere trasgredito più volte per curiosità, per scarso controllo degli istinti, per imitare i coetanei o per il semplice gusto di sfidare gli adulti.
Oggi molti ragazzi scoprono che si può trasgredire senza sanzione e alzano il tiro delle provocazioni per sondare fino a che punto gli adulti fingono, per viltà, di non accorgersene. Non si creano le condizioni perché in un ambiente fertile crescano ragazzi fertili ignorando che la funzione di un adulto è di dare l’esempio, spiegare e, quando è necessario, dire no ed essere capace di fare rispettare il ‘no’ senza ricorrere alla violenza e senza, ripeto, sfogare sui più giovani le nostre paure, i nostri fallimenti, la nostra rabbia. Non occorre essere continuamente arcigni e minacciosi perché i giovani devono essere aiutati ad essere migliori di noi, a sbocciare, a vivere la loro giovinezza nella speranza e non nell’insicurezza degli affetti.
Molti anni fa, con un mio caro amico che oggi non c’è più, Riccardo Massa, discutevamo sul modo in cui si parlava di infanzia e adolescenza sulla stampa, anche in quella specializzata. Ricordo che eravamo d’accordo, già allora, nel dichiararci insoddisfatti – meglio sarebbe dire scandalizzati – della imperante visione dickensiana di un’età, quella che va dalla nascita agli anni dell’adolescenza, presentata quasi sempre a tinte cupe. In realtà, ieri come oggi, le storie che circolano su bambini e ragazzi oscillano tra una immagine oleografica, soprattutto prevalente nei messaggi pubblicitari, del paradiso infantile e adolescenziale e una descrizione fosca e minacciosa del presente e del futuro dei “bimbi e giovani d’oggi”, contrapposti a chissà quali bimbi e giovani di ieri. È quest’ultima visione, non meno falsa di quella degli spot pubblicitari, che oggi prevale di gran lunga, seminando preoccupazione o peggio banalizzazione in un’opinione pubblica già abbastanza allarmata di suo.
Del resto anche questo tipo di informazione è coerente con il catastrofismo, le paure e i divieti che caratterizzano buona parte dei messaggi che ci grandinano addosso. Occorre ribadire con forza che nulla di buono può venire dal diffondere paura e panico e dal fare credere che i giovani siano quelli che compaiono nelle cronache nere dei giornali o che vengono presentati in certi spettacoli televisivi. Sono anche quelli, ma la stragrande maggioranza dei ragazzi non si riconosce e non merita di essere riconosciuta in loro. Il ‘malessere’ dei giovani non può essere affrontato se non si tiene nel debito conto dell’ambiente e degli adulti accanto ai quali crescono. Oggi c’è bisogno di affiancare all’elenco dei mali le proposte per affrontarli e risolverli senza dimenticare l’elenco dei meriti e della positività di tanti ragazzi e ragazze. C’è soprattutto bisogno di non descrivere un’età della vita, qualunque età, soltanto in termini di presenza o assenza di patologie, trascurando le risorse individuali e collettive da attivare.
Provate a chiedere a qualcuno di vostra conoscenza come descriverebbe un ragazzo o una ragazza ‘accettabile’. Vi sentirete facilmente rispondere che è uno, o una, che non si droga, che non fa tardi la notte, che non frequenta cattive compagnie, che non marina la scuola, che non mente, non insulta, non è violento, non si isola, non è ozioso e menefreghista e così via. È facile dire come secondo noi non dovrebbe essere un giovane ma quando si tratta di indicare ciò di cui ha bisogno per esprimere al meglio le proprie potenzialità, il compito si fa difficile.
E invece è proprio dall’individuazione degli standard minimi da garantire a bambini e ragazzi che occorre partire per aiutarli a crescere come uomini liberi e responsabili. Da ragazzi l’obiettivo principale è la ricerca dell’identità. L’identità si conquista anche cercando, scegliendo, sbagliando e frequentando ambienti vitali e persone innamorate della vita. Fermo restando il loro diritto al gioco, allo svago e allo studio, bambini e ragazzi hanno bisogno di essere al più presto coinvolti in progetti e attività che rinforzino il loro senso di appartenenza e di responsabilità nei confronti della collettività.
È importante capire che non siamo soli, che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che la nostra vita acquista pregio e significato se ogni volta che possiamo aiutiamo chi si trova in difficoltà. Non serve protestare e lamentarsi che con noi nessuno l’ha mai fatto. Spezziamo questa catena di autocommiserazione e di alibi. Alziamo la testa e usciamo dalla nostra infelicità alleviando quella altrui. Non basta non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi ma occorre anche fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi. Aiutare chi soffre, chi è umiliato, chi è in difficoltà, non ha soltanto un evidente valore di per sé, ma aiuta a superare le nostre stesse difficoltà. Questo, anche se non fa notizia né sensazione, è il grande ‘segreto’ che tanti nostri ragazzi hanno già scoperto o, mi auguro, scopriranno presto se gli adulti passeranno dalle parole all’esempio.
Psigologo e psicoterapeuta