
I giovani sono giovani, e in quanto tali si salveranno, e forse, con meno ansia e più rabbia, salveranno anche noi.
A quindici anni, al futuro non ci pensavo
Al solito parto da me. Cerco di ricordare la me di allora, ma per quanto mi sforzi non riesco a focalizzarmi intenta a pensare al mio futuro.
Di certo peserà la mia scarsa memoria, i quarant’anni che mi separano dalla quindicenne di allora, eppure penso di scrivere il vero quando scrivo che a quindici anni io, al futuro, non ci pensavo.
Dai quattordici ai diciott’anni ho vissuto totalmente immersa nel presente. Solo alla fine delle superiori, nell’estate della maturità, questo lo ricordo bene, a una sola voce con la mia migliore amica ci siamo chieste: “A che università ci iscriviamo?”.
Una domanda buttata lì tra un ripasso e una merenda, senza ansie o preoccupazioni. Tutte le possibilità erano aperte, nessun test, nessuno sbarramento, nessuna classifica, nessun ranking, nessuno studio sulla occupabilità futura.
L’università come scelta di volontà desiderio piacere. Io volevo fare la sindacalista, desideravo difendere gli operai, mi piaceva studiare tutto ciò che avesse a che fare con la giustizia sociale e la politica.
Il piacere di farsi una cultura
Scelsi Scienze politiche. Così, senza pensieri. Chissà, forse se non avessi vinto a vent’anni un concorso per insegnante, sarei stata a spasso per lungo tempo, ma ai tempi questa eventualità non era motivo di apprensione. Il lavoro, per noi figlie e figli degli anni ’60, non era una preoccupazione. Tutti, in un modo o nell’altro, avrebbero lavorato, e, a dirla tutta, nessuno aveva l’ansia di trovare una occupazione il prima possibile e soprattutto prima degli altri.
Ci iscrivevamo all’università per il piacere di studiare, di “farci una cultura”, certamente spinti, in modo più o meno consapevole, dall’idea di salire sull’ascensore sociale (molti dei nostri padri, per non dire delle madri, si erano fermati al diploma se non alla licenza media). E in nome di questa cultura perdevamo tempo, chi più chi meno, in base al proprio super-io più che a pressioni esterne: il cinema, la libreria, il dibattito.
Più d’uno è andato fuori corso. Nessuno allora ne fece un dramma. Al lavoro ci siamo poi arrivati. E dei tempi dell’università conserviamo ancora un buon ricordo.
Lo spazio temporale degli adolescenti di oggi
E ora? A cosa pensa il quindicenne e il diciottenne di oggi? In quale spazio temporale è immerso?
Sicuramente vive un presente, inteso come spazio personale di vita, molto più pieno del nostro di allora. Studio sport agonismo certificazioni vacanze studio, anno all’estero. Un presente pieno di stimoli per costruirsi un futuro ricco di opportunità e possibilità.
A diciott’anni i nostri giovani hanno già un curricolo che noi ultracinquantenni ce lo sogniamo. E ai nostri governanti questa cosa piace così tanto che la incoraggiano in ogni modo, tant’è che alla maturità la commissione il cv lo guarda, o lo dovrebbe guardare, e se il curricolo è vuoto, perché magari non hai i soldi per fare mille corsi e vacanze studio, o perché il poco tempo che ti rimane dopo lo studio lo vuoi passare ad ascoltare musica e fare graffiti sul diario, dimmi tu se un po’ di ansia non ti viene.
L’ansia, la fretta e la salute
Già, l’ansia. L’ansia di non sapere se dopo tanto studio e fatica a quell’università ci potrai andare, perché c’è il test, il numero chiuso, la quota programmata; perché a Milano mi prenderebbero ma se mi prendono a Londra magari poi ho più possibilità di…
L’ansia. La fretta. Perché chi finisce prima la triennale e si iscrive subito alla magistrale guadagna un anno e quindi poi se programma tutto bene a ventiquattro anni ha finito.
24 anni. Brava/bravo. Davvero. Bravi davvero. Fatica e merito.
25, 26 anni. Uhm… un po’ tardi.
Tardi per cosa? Per un lavoro sottopagato? Per uno stage? Per un contratto a tempo determinato rinnovato per anni?
E anche fosse il lavoro della vita, è davvero tardi se i nostri giovani arrivano al traguardo (fine degli studi) con un paio d’anni di ritardo rispetto alla cosiddetta eccellenza? L’importante è la salute, direbbero i nostri vecchi.
Eppure la salute pare che sia un bene che si va via perdendo. Perché a un presente troppo pieno non corrisponde un futuro altrettanto ricco. Il futuro è una scatola vuota. Il futuro è il lavoro che non c’è, è il clima impazzito, il caro affitti e il mutuo rifiutato. Il futuro è una negazione. Il domani è un tiro mancino, un antidepressivo, una tenda per i fuorisede, un figlio sognato e rinviato.
Eppure…
Eppure io non lo so a cosa pensano i giovani. Non lo so quali siano i loro sogni, le loro aspirazioni, le loro risorse.
I giovani sono giovani, e in quanto tali si salveranno, e forse, con meno ansia e più rabbia, salveranno anche noi.
Alessandra Condito – Dirigente scolastica, Milano
Dirigente scolastica