
Che senso hanno i divieti, dopo la DAD, in questo mondo iperconnesso? Solo in una scuola innovativa e digitale non ne avranno più bisogno.
Il provvedimento era nell’aria, dopo che nel mese di settembre si era diffusa la notizia che il liceo privato bolognese Malpighi vietava l’uso dello smartphone per tutta la mattina a studenti e docenti. E così, come nelle aspettative, è arrivata la circolare del ministro Valditara sull’uso dei cellulari a scuola.
In verità non dice nulla di nuovo: per un verso, richiamando una circolare del 2007, ribadisce che “il divieto di utilizzo del cellulare durante le ore di lezione risponda ad una generale norma di correttezza” che, peraltro, trova una sua codificazione formale nei doveri indicati dallo “statuto delle studentesse e degli studenti”; per altro verso afferma che “è viceversa consentito l’utilizzo di tali dispositivi in classe, quali strumenti compensativi di cui alla normativa vigente, nonché, in conformità al regolamento d’istituto, con il consenso del docente, per finalità inclusive, didattiche e formative, anche nel quadro del piano nazionale scuola digitale e degli obiettivi della c.d. “cittadinanza digitale” di cui all’art. 5 della L. 25 agosto 2019, n.92.”
In sostanza, come è giusto che sia, il ministro rimette alle singole istituzioni scolastiche, in regime di autonomia, di disciplinare nei propri regolamenti d’istituto l’uso dei cellulari in classe. Ciò che preoccupa in realtà è il tono generale sia della circolare sia dell’allegata relazione approvata dalla VII Commissione Permanente del Senato a conclusione di un’indagine conoscitiva. Sembra cioè che, a fronte di un modello educativo inadeguato delle famiglie italiane di tipo lassista, secondo il quale i ragazzi possono fare tutto quello che vogliono finché non fanno male a nessuno, si contrapponga un modello educativo autoritario per il quale, per mettere a posto la scuola, basta trasmettere le regole e imporre le sanzioni.
Un modello educativo autoritario forse poteva funzionare ai tempi del ministro Gentile, durante i quali la scuola e la famiglia, insieme al partito unico, erano le uniche agenzie educative di riferimento per la gioventù. Non può funzionare nella nostra epoca in cui le famiglie sono in crisi e la scuola subisce la concorrenza di potentissimi mezzi di comunicazione sociale di tipo tradizionale (come la televisione e la radio) e di quelli nuovi diffusi attraverso la rete, che subissano i ragazzi di messaggi spesso ambigui e diseducativi (per usare degli eufemismi).
Certo siamo tutti consapevoli, come ricorda la relazione del Senato, che i cellulari possono produrre danni fisici (miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete) e danni psicologici (dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia). Ma siamo certi che basti vietarne l’uso per risolvere il problema?
Ha ragione Maurizio Tucci che spiega nel suo saggio “Adolescenza non luogo” che durante il Covid abbiamo utilizzato gli adolescenti secondo la nostra convenienza: siamo stati noi a mettere loro in mano i cellulari, per fare la didattica a distanza, e adesso che i nostri adolescenti sono incapaci di costruire autentiche relazioni personali, ma tengono acceso il cellulare sotto il banco e sono costantemente connessi, magari con il proprio compagno di banco, pensiamo davvero di poter risolvere tutto con i divieti? I ragazzi non hanno bisogno di divieti, ma, spiega lo psicologo e consulente psico pedagogico Ezio Aceti, “di testimoni credibili che nutrano il loro pensiero avido di modelli con cui confrontarsi e hanno bisogno di educatori che sappiano aprire le porte del futuro affinché sogni, desideri, progetti possano trovare risposte”.
La relazione del Senato, che pure ha degli spunti interessanti, tra l’altro invita a vietare l’accesso degli smartphone nelle classi e al contempo raccomanda di incoraggiare, nelle scuole, la lettura su carta, la scrittura a mano, e l’esercizio della memoria. Ma l’idea di tenere gli studenti isolati dal mondo, come l’Emilio di Rousseau, è del tutto anacronistica. La lettura, la scrittura su carta, l’esercizio della memoria sono abilità; ben altra cosa sono la competenza della comunicazione nella madre lingua, che consiste nella capacità di esprimere ed elaborare concetti, pensieri, sentimenti, fatti e opinioni in forma sia orale che scritta, interagendo in un vasta gamma di contesti culturali e sociali, e la competenza digitale che consiste nel sapere utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione.
Gli obiettivi del PNRR ITALIA per la digitalizzazione delle scuole prevedono un investimento che concede un finanziamento di 2,1 milioni di euro per la trasformazione di 100mila classi in ambienti di apprendimento innovativi e la creazione di laboratori per le professioni digitali del futuro, in sinergia con i 900 milioni di euro di fondi strutturali REACT EU, attualmente in corso di attuazione. Le scuole che aderiscono al progetto dovranno trasformare il 50% delle proprie aule in ambienti educativi innovativi, che prevedono in ogni aula, oltre a banchi mobili o combinabili e alla LIM, anche la connessione alla banda larga, un video proiettore, un computer per docente, un computer ogni 4-5-alunni, una web-cam e un tablet per ciascun alunno.
Dopo che avremo fornito ai nostri alunni tutti questi strumenti, non avranno più bisogno degli smartphone in classe, e se noi educatori non impareremo presto a governare l’impiego di tutti questi strumenti, i nostri alunni resteranno connessi tutto il giorno, senza bisogno dei cellulari, e non ci daranno più ascolto.
Docente di diritto ed economia politica presso l’Istituto professionale Umberto Di Pasca di Potenza