
Nel mondo delle competizioni internazionali, dove l’importante è vincere, l’unico argine possibile è quello delle regole. Perché le giovani atlete non sono solo corpi, per quanto ben allenati.
Da quando, nel 1997, la federazione internazionale di ginnastica decise di alzare a 16 anni l’età minima delle ragazze, per partecipare alle Olimpiadi e alle gare internazionali, si sono segnalati ricorrenti brontolii dei “puristi” di questo sport che si sono lamentati di questa regola, e anche frequenti tentativi di aggirarla (diversi casi di passaporti truccati di atlete russe, cinesi, coreane…).
Da allora c’è sempre qualcuno che dice: “Così, ci saremmo persi la Comaneci”. Nadia Comaneci è la più famosa ginnasta della storia, che nel 1976 alle Olimpiadi di Montreal vinse 3 ori, un argento e un bronzo, incantando il mondo all’età di 14 anni. A quelli che hanno questo rimpianto consiglio di leggere la biografia di Nadia, o almeno vedere il film a lei dedicato, per capire quello che passò in quegli anni, quando divenne persino un trofeo sessuale per un importante esponente del regime rumeno.
Ho l’impressione che lei stessa si sarebbe persa volentieri quelle medaglie, accontentandosi delle 4 che vinse alle successive Olimpiadi, a 18 anni. D’accordo, la Romania del ‘76 non è l’Italia di oggi. Ma il rischio di trasformare una bambina in un trofeo, anche solo metaforico, c’è sempre.
Anche il pattinaggio femminile, altra specialità per giovanissime, ha deciso di cambiare le regole. Alle recenti Olimpiadi di Pechino la bravissima pattinatrice russa Kamila Valieva, 15 anni, ha subito un vero e proprio crollo psicologico (e conseguenti cadute molto fisiche) perché non ha retto la pressione della gara, aggravata da voci di doping che riguardavano la sua squadra.
In seguito al suo caso l’età minima è stata alzata a 16 anni e, dal 2024, a 17. Se non altro i dirigenti di questo sport hanno capito che le giovani atlete non sono solo corpi, per quanto ben allenati, ma anche persone a quell’età ancora fragili.
E forse sarebbe il caso che lo capissero anche i responsabili del nuoto, dove non sono previsti limiti di età, tranne che per i tuffi. Agli ultimi mondiali ha partecipato nei 50 metri farfalla (un animale chiave, a quanto pare, in questa questione) una bambina, Alzain Tereq, del Barhein, di 10 anni. Non si è piazzata bene e forse sarà stata rimproverata dal suo istruttore. Tutto ciò dimostra che in questo mondo olimpico, dove l’importante è vincere, l’unico argine possibile è quello delle regole, di imporre dei limiti.
Dopotutto lo sport più diffuso in Italia, il calcio, è molto irregimentato. Fino a 16 anni non scendi in campo in serie A (e ci sono riusciti Rivera e pochi altri) e fino a 18 non puoi avere un contratto da professionista. Ma questo non significa che non puoi giocare: ci sono migliaia di tornei dalle scuole elementari in su, in cui però puoi sgambettare solo con i coetanei. A questo servono le regole.
A maggior ragione quando il gioco si fa duro, nelle discipline come la ginnastica, il pattinaggio o il nuoto, che richiedono intensi allenamenti e molta costanza. Perché è soprattutto qui che bisogna imporre il concetto che un buon rapporto tra istruttore e allievo non debba mai essere basato soltanto sulla prestazione o sul merito. Proprio come nelle scuole normali, tra docente e alunno. A costo di perderci la Comaneci.