
Una psicologa e un’avvocata riflettono sugli interrogativi sollevati dallo “scandalo” della ginnastica ritmica. Che non riguardano soltanto il mondo dello sport.
È da mesi che si parla delle vicende legate alle allieve della ginnastica ritmica. A partire dalla denuncia di tre ex atlete della squadra nazionale di questa disciplina, diversi centri sportivi, legati alla Federazione Italiana Ginnaste, sono stati messi sotto accusa per le possibili umiliazioni e punizioni eccessive inflitte alle allieve per apprendere questa bellissima disciplina sportiva e migliorarne le prestazioni. Le inchieste, sportive e giudiziarie, sono ancora in corso.
È una storia che riguarda il mondo femminile in quanto gli allievi iscritti a queste associazioni sono perlopiù bambine e ragazze e anche gli allenatori sotto inchiesta dalla magistratura per abuso dei metodi correttivi sono perlopiù giovani donne.
Su queste vicende è nata una conversazione, sintetizzata in uno scambio di domande, tra l’avvocata penalista Francesca Garisto, vice Presidente dell’associazione Casa delle Donne maltrattate di Milano, e Alessandra Marazzani, psicologa, membro del Direttivo di Laboratorio Adolescenza, con l’intento di comprendere da un punto di vista sociale, giuridico e psicologico che cosa è accaduto.
Perché proprio oggi si parla dei metodi educativi che possono essere lesivi della dignità delle ginnaste e configurarsi come un eventuale reato?
L’avvocata: “È cambiata la sensibilità delle persone. L’opinione pubblica è sempre più attenta a comprendere che cosa sia un maltrattamento e le sue conseguenze, e come sia corretto allevare e crescere un minore.
A ciò si aggiunga che è cresciuta la sensibilità e l’insofferenza riguardo agli stereotipi di genere che propongono un modello femminile di ragazza magra, senza forme, che risulta irraggiungibile e slegato dalla realtà per le preadolescenti e le adolescenti.
Ancora più recente è la sensibilità che ha influenzato la nostra magistratura a estendere l’applicazione della norma sui maltrattamenti anche all’ambito dello sport. Ciò è avvenuto da quando la cultura prevalente ha iniziato a rifiutare quelle figure educative che utilizzano metodi correttivi umilianti e lesivi della dignità della persona, intesa nella sua “interezza”.
Perché si parla della persona nella sua interezza, cosa s’intende?
La psicologa: “Finalmente i tempi sono cambiati e gli studenti a scuola o le allieve della ginnastica ritmica sono descritti e apprezzati per il loro percorso di crescita nei vari aspetti. Nei contesti educativi i bambini si valorizzano e si osservano nella sfera cognitiva, corporea, emotiva, sociale e relazionale.
Quando questa valutazione, da parte dell’adulto preposto ad educare, è troppo sbilanciata su un unico aspetto, quello fisico ad esempio, e si chiede all’allieva di uno sport praticato fin dai primi anni di vita di essere attenta affinché non ci siano cambiamenti di peso, si commette un errore madornale.
Le allenatrici in questione perdono di vista i capisaldi pedagogici moderni che dicono che per crescere correttamente si deve favorire, nelle bambine prima e nelle ragazze poi, una consapevolezza di sé come persone nella loro interezza, per affrontare e superare con le proprie risorse le incognite delle gare sportive e gli inciampi della vita in continuo cambiamento.
Da quello che sta emergendo, succede che in alcuni contesti competitivi gli adulti utilizzino atteggiamenti e parole umilianti, diventando maltrattanti nei confronti delle ragazze che dovrebbero aiutare a crescere”.
Da dove origina la norma sui maltrattamenti e con quali intenzioni è stata pensata?
L’avvocata: “La norma sui maltrattamenti (art.570 c.p.) è stata inserita nel nostro Codice penale sin dalla sua emanazione nel 1930, e pensata dal legislatore per tutelare prevalentemente i rapporti familiari dall’abuso di forza e potere esercitati da un componente della famiglia su un altro famigliare tale da comprometterne la salute fisica e psichica.
La stessa norma, che è inserita nel codice dedicato ai delitti contro la famiglia, è stata estesa nel tempo per tutelare tutti quei minori che sono sotto l’autorità di un adulto non famigliare, con lo scopo di essere istruiti o educati all’esercizio di un’arte. Se in origine la norma si adattava a tutelare, oltre che i rapporti familiari, figure come quella del giovane apprendista che andava a bottega per imparare un mestiere, oggi l’estensione di questa norma consente di poter giudicare se vi siano anche in ambito sportivo dei veri e propri reati di “maltrattamento”.
Quando questi errori educativi nei confronti dei minori si configurano come un reato?
L’avvocata: “Perché sia riconosciuta la responsabilità penale per il reato di maltrattamento è necessario che le modalità maltrattanti nelle sue più diverse forme siano abituali. A volte si verificano azioni episodiche degli educatori che provocano sofferenze anche elevate nei minori, ma non rientrano nel reato di maltrattamento proprio perché manca l’aspetto abituale del reato. Quando il minore riferisce nel tempo e ripetutamente di aver subito metodi educativi allarmanti, che gli provocano evidente sofferenza, allora si può configurare il reato di maltrattamento.
A volte il tempo in cui il reato si consuma è di anni, altre volte è solo di settimane, ma quello che conta è la continuità. È poi necessario che ci sia il dolo, ovvero che il maltrattante abbia consapevolezza che quella condotta ripetuta infligge sofferenza e disagio nel minore e nonostante ciò la metta in atto con la volontà di farlo, anche se con finalità ritenute educative.
È plausibile che le allenatrici delle ginnaste ben conoscessero le loro allieve e la loro emotività: basta pensare che nell’agonistica le giovani passano gran parte della loro giornata proprio in palestra per gli allenamenti. È anche probabile che non potessero non sapere che i loro metodi e le loro parole riferite all’aspetto fisico infliggevano un disagio su più fronti, proprio a giovani allieve che in quel contesto avrebbero dovuto trovare un ambiente educativo e famigliare.
Non possiamo escludere che le allenatrici stesse a loro volta siano state vittime delle medesime modalità maltrattanti vissute nello stesso contesto rigido, dove il sopportare le umiliazioni si configurava come un segno di forza, utile per corrispondere al modello proposto.
Infine, per la configurazione del reato di maltrattamento è necessario vi sia il nesso di causalità tra la sofferenza della vittima e la condotta maltrattante, ovvero che il disagio manifestato sia la conseguenza di quella condotta lesiva, in tutto o in parte, ed è qui che la psicologia può dare un fondamentale contributo all’accertamento del reato.
Quali potrebbero essere i danni psicologici di un’educazione sportiva ripetutamente mortificante per le bambine che praticano la ginnastica artistica e ritmica?
La psicologa: “Innanzitutto dobbiamo dire che, contrariamente a quello che si pensa, la competizione, il desiderio di migliorarsi per arrivare primi, è un’ambizione insita in tutti noi e, quindi, anche in questa vicenda tra allenatrici e allieve si sarà creato un legame forte, proprio su questo comune obiettivo.
L’ambito agonistico, dai 7/8 anni, con allenamenti settimanali ripetuti, può non favorire un clima di scambio sereno se le allenatrici della ritmica sono ossessionate dal risultato prestazionale. Rapidamente la frequentazione tra allenatrici e allieve può diventare negativa perché da un lato si instaura un forte legame con lo scopo comune di vincere ma, dall’altro, le allieve si sentono vessate attraverso prese in giro più o meno velate, richiami sul corpo troppo grasso, confronti spietati sulle prestazioni sportive mai sufficienti eccetera.
La conseguenza è che le allieve possono sviluppare un senso di inadeguatezza importante. Esperienze di vita così coinvolgenti, vissute per alcuni anni rischiano di diventare traumatizzanti, e spesso succede che le persone se ne accorgono anni dopo, in adolescenza o in età adulta. Questi danni psicologici avvengono perché la personalità delle allieve, tra gli 8 e i 15 anni, non è ancora strutturata per difendersi o ignorare gli eventuali attacchi vessanti delle allenatrici.
Se nel tempo non ci saranno altre esperienze gratificanti o correttive con altri adulti di riferimento, sarà plausibile che per alcune minori si possa sviluppare, per esempio, un disturbo alimentare o un disturbo dell’umore su un versante depressivo o ansioso”.
Conclusioni
L’augurio è che tutti gli educatori dello sport possano comprendere il delicato compito di lavorare con “materiale umano” sensibile e che è meglio avere un campione in meno ma un’atleta in più, sana, consapevole di sé e del proprio corpo.
Che la sensibilità che si sta formando su questo argomento si diffonda sempre più anche nelle aule di giustizia, per stigmatizzare definitivamente e giuridicamente il maltrattamento in ogni luogo in cui viene messo in atto, a maggior ragione nei confronti di minori che subiscono l’autorità di chi li maltratta e che non riescono a esprimere, se non di rado, la propria sofferenza, per il timore di deludere le aspettative in loro riposte.
Da ultimo, ci auguriamo che le iniziative di protesta e di denuncia di alcune coraggiose giovani ginnaste e delle loro famiglie trovino sempre più largo consenso, a protezione della loro salute e a sostegno di ulteriori cambiamenti culturali.
Psicologa, Avvocata