
La solitudine non è sempre malvagia, se si sa ascoltarla in profondità; e non è neanche un veleno.
Mi vedete? Mi sentite?
Sono domande che mi sono posta spesso negli ultimi anni, ma non sono mai riuscita a trovare una risposta. Succedeva che stessi parlando in un gruppo di persone, ma raramente qualcuno mi ascoltava. Mi chiedevo se fossi noiosa io, magari avrei dovuto adeguarmi a loro: parlare di ragazzi, di trucchi, di vestiti e così via, ma onestamente quegli argomenti non mi interessavano e quindi diventava difficile fare conversazione.
Sono rimasta da sola per tantissimo tempo.
Quando mi sono trasferita in Italia, ho provato una solitudine che non sono mai stata in grado di spiegare. All’inizio provavo a parlare con qualcuno, ma dopo non riuscivo a portare avanti quei rapporti. Non uscire di sabato sera non è mai stata una preoccupazione per me, non mi ha mai attirata la vita notturna; il problema era, invece, stare da sola a scuola durante l’intervallo e vedere gli altri parlare con il loro gruppo di amici. Il problema era anche rimanere da sola durante i lavori di gruppo, e dover chiedere al professore se potevo farlo individualmente. il problema era anche, mi ricordo, essere l’ultima scelta quando si facevano le squadre durante le ore di educazione motoria.
Ero penalizzata moltissimo dalla mia timidezza; non riuscivo a parlare a causa dell’ansia e, se lo facevo, parlavo troppo velocemente e nessuno riusciva a capirmi.
Essere esclusa ti fa anche sentire “sbagliata” e spesso ti chiedi se il problema non sia tu; se tu non sia “abbastanza” per loro.
Quando le persone scoprivano che mi sentivo emarginata, dicevano tutte la medesima cosa: “devi venire da noi, non devi stare da sola”. Ma che ne potevano sapere, “loro”, della pressione che sentivo vicino allo stomaco prima di parlare con qualcuno, delle mani sudate e del tremito che accompagnava ogni mio movimento? Che ne sapevano, loro, del fiato corto che anticipava qualsiasi mio pensiero, qualsiasi mia azione? E che ne sapevano, loro, della sensazione terribile di essere sola prima di andare a dormire? Così ho smesso di raccontare ciò che provavo, perché diventava troppo difficile spiegare quel vuoto incolmabile nel petto.
Dopo aver passato un anno immersa nella solitudine più profonda, ho iniziato ad accettare qualsiasi persona che entrava nella mia vita, e di conseguenza, qualsiasi atteggiamento pur di non perderla. Così ho perdonato bugie, comportamenti tossici, incoerenza, ingiustizie, nella speranza che quella persona riempisse i buchi vuoti. Ma è stato peggio e ho finito per autodistruggermi: non avevo nemmeno più quel carattere forte che mi aiutava a difendermi. Ero debole, facilmente manipolabile e troppo empatica, per cui perdonavo tutto ciò che subivo. Ma, alla lunga, non ce la fai più e allora ho chiuso qualsiasi rapporto che mi facesse sentire sbagliata, anche a costo di rimanere da sola.
La sorpresa è stata che sono rimasta sola, perché ho iniziato ad apprezzare la mia compagnia; ho abbracciato la solitudine, e questa in cambio mi ha migliorata come persona nonostante la fragilità dell’età.
Ho conosciuto lati di me che in compagnia di qualcuno non avrei mai approfondito, perché, se la solitudine è la lezione più amara che il destino possa riservarci, può anche essere una compagna preziosa per poter riconoscere la propria personalità, ricca di sfumature, che ci distingue dal resto dell’universo.
La solitudine non è sempre malvagia, se si sa ascoltarla in profondità; e non è neanche un veleno. La solitudine è l’antidoto che cura ogni dolore e riempie gli spazi dentro di noi.
Basta saperla accogliere, analizzare, accettare, e trasformarla in un capolavoro.
Redazione Junior