
La drammatica esperienza dell’anoressia, vissuta e affrontata da una ragazza: la solitudine e la difficoltà di prenderne coscienza e ritrovare se stessi
Spesso inizia tutto con un commento del tipo: “Hai preso qualche chilo in più” oppure “Sei grassa per la tua età”, da parte della tua famiglia e degli amici stretti. Dai loro retta, pensando che desiderino soltanto aiutarti, e cominci a contare le calorie, a saltare i pasti, a fare attività fisica per bruciare qualche grasso in più.
Avevo soltanto dodici anni quando iniziai a digiunare per giorni interi, con l’obiettivo di perdere peso in meno di due settimane. Il mio corpo era stanco e allora ricominciavo a mangiare, ad abbuffarmi, avvertendo, però, un gran senso di colpa per tutto il cibo che ingerivo. Così, il giorno dopo aver mangiato, per sentirmi meglio, facevo tanta attività fisica fino a consumare più di tre litri d’acqua.
Ed è andata avanti così; per settimane, mesi, e infine anni.
Soffrire di un disturbo alimentare vuol dire combattere una guerra in cui i nemici sono il tuo riflesso nello specchio e una vocina nella testa che ti controlla costantemente.
Ci sono tanti lati brutti di questo tipo di malattia, ma quello più stancante fisicamente è l’iperattività, ovvero il cercare di fare movimenti di qualsiasi tipo che in base ai tuoi calcoli ti aiuteranno a bruciare calorie. Ed è proprio qui che entrano in gioco i numeri: il peso sulla bilancia, quanti pasti giornalieri fai e quanti grassi hai consumato, le ore di attività sportiva impiegate al giorno. Alla fine, se ci penso adesso, erano i numeri a controllare me, e non viceversa.
Come spieghi ai tuoi genitori che non vuoi fare colazione insieme a loro? Come spieghi ai tuoi insegnanti che non hai energie per fare i compiti, per studiare con costanza, per rimanere concentrata durante le lezioni? Come spieghi ai tuoi amici che non puoi pranzare con loro dopo la scuola?
Sono domande che chi soffre di un disturbo alimentare si fa di continuo, senza trovare risposte convincenti.
Penso che io sia stata influenzata anche dalla mia famiglia, poiché quando perdevo peso mi lodavano per quanta forza di vovolontà avessi, senza sapere, però, i sacrifici che dovevo fare.
Il mio obiettivo non era di soddisfare me, di stare bene con me stessa, ma di soddisfare le esigenze dei miei parenti, che avevano un’idea nella loro testa di come io dovessi essere.
C’è da ricordare che non esiste solo l’anoressia o la bulimia, ci sono tantissimi altri disturbi che si manifestano in maniera diversa, ma che hanno tutti una caratteristica in comune: ti distruggono da dentro, ti rendono debole e nervosa.
Non potrò mai dimenticare la paura che avvertivo nel petto prima di pesarmi o prima di fare un pasto. Porterò questi ricordi con me come delle valigie pesanti per tutto il mio cammino.
Non chiesi aiuto e non ne parlai mai con nessuno. Non ebbi il coraggio di ammettere di aver perso il controllo, di avere una mania per qualcosa. Pensavo che non fosse abbastanza grave da condividerlo con gli altri, e che se lo avessi fatto sarebbe stato solo per attirare la loro attenzione.
La verità è anche che non sapevo neanche più chi fossi senza il mio disturbo alimentare. Non sapevo che cosa mi piacesse e che cosa non, arrivavo a preferire la sofferenza, nella quale trovavo anche sollievo.
Quando per la prima volta svenni, nello spogliatoio alle scuole medie, capii che la situazione mi era sfuggita di mano. Mi sforzai di vedere il cibo non più come un nemico, ma come l’ultima salvezza che mi era rimasta. Avevo due scelte: continuare a rifugiarmi nella mia debolezza, oppure avere la forza di abbandonare le mie vecchie abitudini. Scelsi me, scelsi la speranza in un futuro migliore. Ritrovai la forza di vedere di nuovo il mio corpo belissimo, unico e speciale. Smisi di contare le calorie, di pesarmi ogni giorno, di fare tanto sport. Mettevo in atto tutto ciò che fino al giorno prima mi terrorizava.
Non so se io ne sia uscita al 100%, ma so di certo che ciò che mi è successo mi ha segnata nel profondo del mio cuore, lasciando una cicatrice enorme, che avrà bisogno di tanto tempo prima che guarisca.
Il mio desiderio, oggi, è di vivere in un ambiente sicuro, in cui non ci siano canoni di bellezza da seguire e dove tutti noi possiamo essere noi stessi.
Vorrei che tutti avessero il coraggio di porgere una mano al più debole, senza la paura di essere giudicati. So che il mostro che mi ha colpito in un’età molto fragile sta facendo soffrire adesso altri adolescenti, e io voglio che sappiano che non sono soli, che sono in grado di sconfiggerlo.
Ho il dovere, per esserci passata, di consigliare a tutti coloro che hanno lo stesso problema di non arrendersi mai, poiché l’uscita da quel tunnel diventa sempre più vicina, l’importante è avere tanta pazienza e riuscire a superare gli ostacoli che ci vengono incontro, lasciando che i sogni plasmino il nostro futuro.
Redazione Junior