
Perché cresce la “disaffezione” all’idea di continuare gli studi negli atenei? Colpa dei problemi economici, certo. Ma anche di chi dovrebbe alimentare questo desiderio.
Un dato sorprendente
L’annuale ricerca sugli adolescenti, condotta da Laboratorio Adolescenza e l’Istituto Iard ha riscontrato le difficoltà della scuola, conseguenti alla pandemia e ai periodi di Dad, nella preparazione degli studenti e nel rendimento scolastico. Effetti negativi che erano certamente prevedibili. Ma dalla nostra indagine è emerso anche un dato più sorprendente e preoccupante, che riguarda l’idea che gli adolescenti hanno circa il proseguire gli studi dopo il conseguimento del diploma. Pensa di iscriversi all’Università il 63% degli studenti intervistati, ma pensa di non farlo il 33% (addirittura il 40% dei maschi).
Certamente c’è un forte divario tra gli studenti dei licei e quelli degli istituti tecnici e professionali, ma comunque allarma la differenza di risposta rispetto al 2018, quando a progettare il percorso universitario era stato il 76,8% e ad escluderlo appena il 22,9%. Vuol dire che Il 10% in meno degli studenti aspira all’università.
Da che cosa deriva questa “disaffezione”, per altro confermata dal dato oggettivo del calo di iscrizioni del 21-22?
L’abbiamo chiesto a due esperti di università, un ex rettore e una docente di pedagogia.
I dati sociologici ci dicono che diminuiscono gli studenti che vogliono proseguire gli studi all’università. La riduzione degli iscritti, recentemente registrata, li conferma oggettivamente. E’ un fenomeno che apre una serie di domande. Perché? Che cosa vogliono fare o non fare i ragazzi? Quali sono le loro aspirazioni future? Questo sarebbe interessante capire.
Possiamo intanto presumere che questa “disaffezione” al progetto universitario sia il risultato di un intreccio di molte cause. Non si può certo negare l’importanza dello scenario economico e delle difficoltà che comporta una pianificazione formativa e lavorativa: i costi sono elevati, sempre di più, i tempi lunghi e spesso le garanzie che l’ascensore sociale funzioni sono scarse. Ma sarebbe riduttivo non considerare anche altre cause, di tipo culturale. C’è da notare per esempio che esiste un’evidente contraddizione tra una serie di miti attuali, molto forti (il successo, il guadagno, la produttività, l’efficienza, e l’urgenza di raggiungere questi traguardi) e i lunghi, faticosi, spesso noiosi percorsi universitari. Investire negli studi significa proiettare più avanti nel tempo i possibili risultati che si vogliono raggiungere.
Da qui deriva anche, in molti casi, una certa idea di “inutilità” degli studi universitari o comunque la sensazione che l’università non sia più un luogo interessante. E ci sarebbe molto da discutere sulla realtà di questa opinione. In ogni caso mi ha colpito una recente intervista a Flavio Briatore, che ha così pianificato il futuro del figlio che sta per cominciare le scuole superiori: “Lo manderò in un collegio molto qualificato in Svizzera a fare il liceo, poi basta così, non farà l’università. Tutto quello che serve per fare la mia professione glielo insegnerò io”. A parte il classico elitario collegio svizzero (e il dubbio se suo figlio voglia veramente fare il suo stesso lavoro), trovo comunque significativa l’intervista e mi chiedo se questa idea sia davvero circoscritta a questo caso particolare, dove evidentemente il fattore economico non conta. Diciamo, a questo punto, che ha poco senso parlare di università in generale. Ci sono, lo dicono tutti, quelle di serie A e quelle di serie B, quelle “professionalizzanti”, che garantiscono occupazione e stipendi alti, come ingegneria, informatica, medicina (sono recenti i 65mila iscritti per 15mila posti), i corsi di economia, quelli giusti. Poi ci sono quelle professionalizzanti (magari perché la legge impone quella laurea per accedere alla professione), che però non garantiscono affatto il posto di lavoro (per esempio giurisprudenza, psicologia, architettura), ci sono quelle che da questo punto di vista sono un terno al lotto (molti corsi di laurea scientifici) e anche quelle come Scienze dell’Educazione (la cito perché è quella in cui ho insegnato) che garantisce sì il posto di lavoro, che però è malpagato e spesso insoddisfacente, non solo dal punto di vista economico ma anche dello scarso prestigio e riconoscimento sociale delle figure educative a fronte di un lavoro duro e dei tre, e spesso cinque, anni di studi universitari. Poi ci sono anche quelle che danno semplicemente una formazione culturale, svincolata da precisi sbocchi lavorativi, corsi di laurea che faticano a definire, come pure le norme universitarie da anni richiedono a tutti i percorsi universitari, specifici profili professionali conseguenti alla laurea (lettere e filosofia, matematica, beni culturali). Appaiono come mondi strani agli studenti che vengono bombardati da classifiche sulle università e i corsi di laurea che garantiscono più successo, più lavoro, più soldi. Un’informazione che pesa, in cui una realtà variegata e complessa viene sempre valutata secondo un unico criterio, per quanto importante. Esistono poi oggi delle reali alternative formative all’università: a furia di professionalizzare, era inevitabile che crescesse la concorrenza. Ci sono scuole e master, molto professionalizzanti, ma anche qualificati e prestigiosi, in molti campi, come moda, design, comunicazione, diversi settori economici. Dove si può fare come il figlio di Briatore, senza averlo come padre.
Tutto questo non semplifica le cose a chi deve scegliere, agli studenti cui in ultima analisi, nonostante tutti i condizionamenti esterni, spetta la decisione. La parola chiave nell’ultimo decennio è stata “orientamento”. Nelle scuole sono state investite molte risorse, con fondi specificamente destinati, su questo tema. Ottimo, certamente utile. Ma con un peccato originale, quello di dimenticare un particolare fondamentale: per orientarsi bene occorre per prima cosa sapere dove ci si trova. Sapere dove ci si trova, per un adolescente, significa capire sé stesso, conoscere le proprie capacità e i propri limiti, dare forma al proprio desiderio e ai propri sogni, fare ipotesi su un progetto possibile di futuro studio e lavoro. E la scuola non lo aiuta, nella maggior parte dei casi, in questo. C’è spesso il rischio, nella confusione tra open day, volantini, iniziative di promozione dei corsi di laurea e degli atenei, che i fattori di scelta diventino casuali (sono bravo in matematica, quindi studi scientifici), molto locali, molto deboli. Lo dimostrano, tra quelli che scelgono comunque l’università, le carriere spesso saltellanti da un corso all’altro.
La difficoltà di scelta non è tutta colpa della scuola. Da molto tempo sappiamo che è una cosa davvero difficile per gli adolescenti proiettarsi in un’immagine futura, che è cresciuta in loro sempre più la distanza tra il “quel che faccio” e il “quel che sarò”. Due sono i fattori che contribuiscono a questa difficoltà. C’è, in primo luogo, la cosiddetta “orizzontalità” dell’adolescenza, una posizione (anche fisica, gli “sdraiati”) in cui si fa fatica a guardare il futuro: soprattutto in un mondo così complesso e frammentato, lo sguardo si limita al domani, dopodomani al massimo. Allora accorci i tempi, ti limiti a progetti stretti, che danno più sicurezza, che danno un minimo di illusione di controllo.
La pedagogia ha detto molte cose belle sulla progettazione esistenziale, ma si è fatto molto poco per aiutare chi ha responsabilità educative a ricomprenderla davvero tra i propri compiti e a promuovere capacità di progetto di sé negli adolescenti.
La capacità di progettarsi peraltro deriva dalla conoscenza di sé e dal proprio immaginario. E qui sorge un secondo fattore di difficoltà: gli psicologi parlano di “impoverimento” dell’immaginario. Le immagini possibili di sé, che servono appunto alla progettazione del futuro, vanno diminuendo. Come dire che ci sono meno sogni, meno desideri e passioni, compresi ovviamente quelli legati a un percorso universitario. Esiste però un immaginario diffuso, sempre più potente e pervasivo, che viene dai media e dai social. Che cosa vogliono fare da grandi i ragazzi? Le ricerche recenti segnalano, per esempio, che molte ragazze aspirano a diventare influencer (una figura poco definita, peraltro: che cosa bisogna studiare per fare l’influencer?), mentre molti ragazzi vogliono fare gli chef (qui almeno il percorso è più chiaro). Intendiamoci, ci sono sempre stati questi miti diffusi: una volta le ragazze volevano diventare attrici o modelle e i maschi calciatori. Ma erano sogni che si scontravano, che entravano in concorrenza, con aspirazioni molto più concrete e personali. Perché oltre ai testimonial c’erano i testimoni (genitori e parenti, educatori e insegnanti) che proponevano, interpretandoli o nutrendone il desiderio, progetti di vita diversi. Ma questa funzione si è persa, educatori e famiglie sembrano ritrarsi davanti agli adolescenti. Non sembrano più in grado, o almeno lo fanno molto meno, di trasmettere desideri, esempi, modelli di vita: gli elementi che sono alla base della motivazione. È questa la “secessione” dal mondo adulto, di cui parla anche il professor Dionigi nel suo intervento. Non sono i giovani che si sottraggono, sono gli adulti che hanno abdicato, travolti dalla crisi della funzione educativa e dell’autorevolezza. Se pensiamo alle nostre storie, quanti di noi sono stati influenzati nelle nostre scelte, nelle nostre carriere, da un genitore, in primo luogo, o dall’incontro con un insegnante che ci ha affascinato, che ci ha indicato una strada? Immagino tanti. Ecco, ai ragazzi questo capita sempre meno. E fa specie pensare che in fondo familiari ed insegnanti sono gli adulti che necessariamente frequentano di più.
Tornando al tema dell’università, c’è forse da ripensare a quello che abbiamo detto all’inizio. Molti di quei corsi di studio che abbiamo considerato non professionalizzanti, in realtà lo sono: preparano all’insegnamento, quello che una volta veniva considerato il mestiere più bello del mondo. Ma la figura dell’insegnante ha subito una tale svalutazione (anche economica), che non viene più considerata nemmeno una professione desiderabile.
Quanti giovani aspirano a diventare insegnanti? Ce ne sono ancora tanti, ma sempre meno. E questo toglie una grossa fetta al possibile sogno dell’università.
Docente senior di Pedagogia, Università Milano Bicocca