
Chi occupa posizioni di potere, soprattutto quando questo potere si esercita su soggetti in formazione e di giovane età, ha il dovere di essere felice. Felice nella vita, negli affetti, nelle relazioni, nella sua visione del mondo.
Ho visto anche degli zingari felici
Claudio Lolli
“Il dovere prevale sulle attese personali”.
Questa la frase che il Presidente Mattarella ha rilasciato alle telecamere subito dopo l’ultimo scrutinio parlamentare che ha portato alla sua rielezione.
Una frase tanto breve quanto potente. Poche parole di cui, da persona di scuola e da figlia di emigranti cresciuta a pane e sacrificio, mi sono subito innamorata.
La mia attenzione si è però immediatamente allontanata dal contesto in cui quelle parole venivano pronunciate, per rivolgersi al contesto che più mi è proprio, ovvero la scuola e i tanti troppo lunghi discorsi che spesso si fanno dentro e intorno ad essa.
Prendiamo l’educazione civica. Quante inutili parole, quanti progetti, quante unità didattiche, quanti voti, quanti danni da quando, per un surplus di retorica nazional popolare, questo nobile tema è stato introdotto come disciplina obbligatoria nel curricolo scolastico, quando invece tutti sappiamo che basterebbero poche e ben selezionate parole per fare una buona educazione, che, se buona, è di per sé civica. Poche parole ricche di senso e tante, o sufficienti, azioni ricche di esempi significativi.
Il dovere prevale sulle attese personali. Poche storie, niente scuse, niente nonne malate, gatti morti, influenze che non passano, tram che arrivano in ritardo, niente ma io pensavo che e ancor meno io speravo che. Prima il dovere. Punto.
Questo è quello che ho pensato ascoltando le parole di Mattarella. E ho pensato all’inefficacia di quelle prediche infinite che facciamo ai nostri giovani, la morale, la correttezza, l’ostentazione di delusione, la fiducia tradita, bla bla direbbe Greta. Alla seconda frase già non ci ascoltano. E forse fanno bene.
Ma Mattarella son sicura che lo hanno ascoltato. E sono sicura che non hanno cambiato canale.
Eppure.
Eppure mentre pensavo che avrei pubblicato la frase del neoeletto Presidente sul sito della scuola, come sintesi perfetta di una buona educazione civica, non ho potuto non avvertire una nota stonata, un elemento di disturbo che mi avvertiva che qualcosa non andava.
La nota, tradotta in domanda, era: “Ma sei felice?”
Tu, uomo che ti carichi sulle spalle il dovere di rappresentarci per altri sette anni, tu, spalle curve e collo incassato, sei felice?
Traslata al mondo della scuola, la domanda diventa: “Noi, donne e uomini che nella scuola occupiamo una posizione di potere, dirigenti e insegnanti (perché anche la posizione del docente è una posizione di potere) siamo felici?” Qualcuno ci hai mai posto questa domanda?
Quando Mattarella dice che il dovere prevale sulle attese personali intende che esso debba prevalere anche sulla felicità personale? Temo che, essendo a tutti nota la sua intenzione di non accettare un altro incarico, Mattarella abbia voluto dirci che il dovere di rappresentarci, di non lasciarci senza guida alcuna, visto lo sbando cui stavano andando incontro governo e partiti, avrebbe prevalso sulla sua felicità (o quanto meno sull’attesa di una felicità agognata).
Ora io sono certa che, pur infelice, Mattarella sarà, per la seconda volta, un grande Presidente.
Ma qualcosa mi dice, per studi ma soprattutto per esperienza sul campo, che nel modo delle organizzazioni, e nella scuola in primis, un leader infelice, sia esso organizzativo/il dirigente o educativo/il docente, non produce mai buone azioni.
In venticinque anni di lavoro come dirigente scolastica, posso con certezza affermare di non aver mai visto un docente infelice essere un buon formatore. Al più, se è un professionista serio e impegnato, il docente infelice può fare una buona didattica. Ma non sarà mai un buon insegnante. Questo talvolta lo comprende l’interessato/a (se è professionista capace di riflessione su di sé come ogni professionista dovrebbe essere) ma di certo lo sanno gli studenti e i dirigenti scolastici, se sono capaci di guardare oltre gli indicatori apparenti e pur necessari di qualità dell’azione formativa.
Ovviamente lo stesso discorso vale per chi occupa la posizione di dirigente scolastico. Siamo sicuri che sia sufficiente mettere a capo dell’organizzazione scuola dirigenti selezionati con concorsi che neanche alla NASA mettono in campo, saper tutto di tutto (inglese, giurisprudenza, cultura generale, logica, informatica, pedagogia, taglio e cucito e altro ancora) per poi? qualcuno chiede ai nuovi manager della scuola, prima di assegnare loro una sede, e la rete di relazioni di cui essa si compone, se sono felici?
E non sto parlando di burnout o di stress da lavoro correlato. Nessuno nega che ci siano fattori interni all’organizzazione o alla tipologia di prestazione che possano rendere il lavoratore stanco, disilluso, frustrato, forse anche momentaneamente infelice.
In questa sede voglio toccare un tema più ampio e a mio avviso poco esplorato nel mondo della scuola e delle organizzazioni in generale, quasi che il solo parlarne ci renda persone banali e superficiali: la felicità, non solo o non tanto come diritto, ma come dovere.
Sempre di più negli anni ho maturato la convinzione che chi occupa posizioni di potere, soprattutto quando questo potere si esercita su soggetti in formazione e di giovane età, abbia il dovere di essere felice. Felice nella vita, negli affetti, nelle relazioni, nella sua visione del mondo.
È ovvio e superfluo ricordare che il dolore (le malattie, i lutti, le separazioni) attraversa la vita di ogni lavoratore/trice, ma tutti noi sappiamo che ci sono persone tristi a prescindere, infelici sempre, perché questo è il loro sguardo sulle cose della vita. E questo sguardo, opaco, storto, appannato, quando entra nelle aule della scuola fa male, sempre, seppure con intensità diverse in relazione all’interlocutore (più o meno solido) e alle variabili di contesto (più o meno compensative).
Ecco perché, al di là dei concorsi e delle innumerevoli prove programmate (test, simulazioni, scritto, orale) bisognerebbe prevedere un breve colloquio per chiedere al docente prossimo al ruolo: “Ma tu, sei felice?”
Stare bene è un dovere. Ed è un dovere civico, non è solo un diritto individuale.
Lo abbiamo toccato con mano in questi anni di pandemia. Stare bene, agire ogni sforzo per tutelare la propria salute non è solo una questione personale, ma è questione che riguarda tutti, perché ogni scelta che non salvaguarda il proprio benessere impatta pesantemente sulla vita degli altri, in termini di costi, libertà e salute pubblica.
Allo stesso modo curare la propria sfera di felicità individuale non è questione squisitamente privata. La felicità è (anche) un fatto sociale. E per chi lavora nella scuola essa è in primis un dovere professionale.
Quindi in un ipotetico colloquio di selezione (altro tema tabù che meriterebbe maggiore attenzione) non limitatevi a chiedere al docente che vi sta di fronte se conosce i propri doveri professionali. Chiedetegli anche se è felice. E ascoltate con attenzione la risposta. E mentre lo fate osservate la postura. Le mani, distese o nervose, gli occhi, fermi o sfuggenti, e le spalle. Guardate le spalle e il collo. Se sono troppo curve, se il collo è incassato.
Mattarella rappresenta l’eccezione. L’uomo che, pur con una postura che tradisce infelicità, saprà svolgere al meglio il proprio dovere.
Ma degli altri, delle donne e degli uomini dalla postura curva, diffidate. Vogliategli bene. Ma teneteli lontani dalla scuola.
Dirigente scolastica