
Hanno ripreso il ritmo, faticosamente. La maggior parte di loro hanno dimostrato tenacia e resistenza alla frustrazione. Ma non possiamo dimenticare tutti quelli che non ce l’hanno fatta.
Dicembre. Nevica.
Il primo trimestre del nuovo anno sta per finire, eppure si fatica a pensare che davvero di nuovo anno si tratti.
Troppo intenso è ancora il ricordo della dad e di tutto ciò che essa ha comportato nei due anni scolastici precedenti.
A essere sinceri le cose non vanno poi tanto male. È vero, camminiamo ancora con le mascherine, manteniamo (più o meno) la giusta distanza, ogni tanto qualche ragazzo/a va in dad, ma di quarantene di classe (complice la buona adesione dei giovani alla campagna vaccinale) ad oggi neanche una.
Ma a dire che le cose vanno bene non ce la sentiamo. Un po’ per scaramanzia (sia mai che appena lo dici ti arriva la segnalazione del caso Covid) un po’ perché proprio bene, a guardare sotto la superficie di una normalità ritrovata, le cose non vanno.
Di positivo c’è che ragazze e ragazzi a settembre sono tornati a scuola, dopo un’estate che il Ministero aveva immaginato piena di attività e iniziative a loro dedicate per recuperare la socialità perduta e rinforzare e le competenze disciplinari in parte compromesse dalla didattica a distanza.
Obiettivo nobile quello del Piano Estate, e arricchito da una serie di proposte che a farle tutte c’era di che far girare la testa: attività laboratoriali, attività legate alla conoscenza del territorio e delle tradizioni, attività finalizzate all’incontro con mondi esterni, iniziative di orientamento, attività ludico-creative, iniziative per l’educazione alla vita collettiva, attività sportive, sportelli informativi e altro.
Peccato che, per l’appunto, fossimo in estate. E i ragazzi, saggiamente, hanno preferito socializzare al mare e rinforzare competenze che forse a Trastevere non hanno osato declinare.
A settembre però i ragazzi sono tornati in massa, e, apparentemente, hanno ritrovato la scuola di sempre: cattedre vacanti, balletto di supplenti, orari ridotti, nuovi docenti. E ancora e soprattutto: lezioni verifiche interrogazioni e l’aula, la loro aula.
L’aula. Quel setting tanto bistrattato da chi elogia classi capovolte e didattica digitale ma che, nella sua essenzialità fatta di pareti (il limite) banchi (lo stare/il saper stare) voce (la parola) e corpi (la presenza) è ciò che ancora dà senso e valore alla parola scuola. Presenza di corpi reali dentro uno spazio fisico definito. Poi viene il resto, il territorio la comunità il mondo, ma prima, spero che almeno questo si sia appreso dopo quasi due anni di pandemia, prima viene l’essenziale.
L’essenziale è che i ragazzi siano tornati a scuola, e che noi adulti non ci si faccia prendere dall’ansia di recuperare il tempo perduto (che per i docenti è il programma). Piano, andiamo piano.
Ciò che è perduto è perduto: un po’ di tecnica di traduzione, un po’ di pratica nel disegno tecnico, un po’ di esercizio di scrittura. La dad, che per alcuni mesi è sembrata la panacea di tutti i mali, ha lasciato strascichi di ignoranze e saperi fragili. E una gran fatica a ritrovare il giusto ritmo che consenta a docenti consumati e a giovani allievi di camminare insieme, riconoscendo a questi ultimi quanto di importante hanno appreso lo scorso anno: flessibilità, autonomia, resistenza alla frustrazione, tenacia. Senza queste competenze gli studenti sarebbero crollati. E invece, i più, non sono crollati. Sono solidi, sono vivaci, hanno imparato a stare nel loro tempo incerto. E hanno fame. Mai come in questo avvio di anno scolastico si era registrata un’adesione così alta ai corsi pomeridiani di arricchimento dell’offerta formativa: corsi di inglese, teatro, laboratorio di scrittura, autocad, corsi di recupero, laboratorio di fotografia, corso di potenziamento artistico. Una voglia di fare che è forse una voglia di esserci, di riprendersi lo spazio scuola affermando la loro presenza non solo nell’orario obbligatorio di lezione ma anche dopo, in quel tempo lungo del pomeriggio che è tempo per pranzare insieme, chiacchierare, conoscere il compagno dell’altra sezione, allargare quel noi che lo scorso anno era imploso in un noi familiare e un po’ asfittico.
E allora perché non osare dire che le cose vanno davvero bene?
Perché continuare a scavare, mai contenti, mai pienamente soddisfatti?
Perché a scavare, e neanche troppo in profondità, affiorano le storie delle ragazze e dei ragazzi che non ce l’hanno fatta. Ansia da ritorno, sindrome da ritiro sociale, disturbi alimentari, depressione, attacchi di panico. A tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico il numero di studenti con disagio psichico è in costante aumento, quasi che la fatica a lungo trattenuta non sia più contenibile. La scuola come detonatore di un disagio soffocato e represso, perché altri erano i problemi che meritavano attenzione e voce, in famiglia, in Italia, nel mondo. La scuola che questi ragazzi non hanno più l’energia di frequentare. E allora non ci vanno, un giorno, poi due, poi una settimana, un mese. Gli psicologi dicono di non forzarli, di rispettare le loro fatiche (sarà giusto? vai a saperlo!), le famiglie si affidano e si fidano, le scuole un po’ si svuotano.
Nevica, dicono che la neve lavi tutto. Ma ci vorrà molta neve ancora per dimenticare queste storie di dolore, e forse sarà un bene non dimenticarle mai, per non commettere più gli stessi errori.
Intercultura “intramoenia”
L’Erasmus, ma anche l’anno di studio all’estero durante le scuole superiori – Intercultura docet – sono esperienze formative importantissime non solo dal punto di vista didattico. Ma il paradosso è che spesso andiamo a conoscere realtà e culture lontane e non ci conosciamo… tra di noi. E se si ipotizzasse una sorta di “Erasmus” o di “Intercultura” interregionale, in Italia? Se ai giovani si desse la possibilità di sperimentare un’esperienza di “interscambio” italiano che dia modo di confrontare la vita (e la scuola) in realtà diverse dalla propria?
L’idea, ancora in bozza, è venuta alla Associazione Rete Iter (costituita da enti locali e organizzazioni no-profit con l’obiettivo di sviluppare le politiche per la gioventù quale chiave per lo sviluppo dei territori e del Paese) ed è immediatamente piaciuta a Laboratorio Adolescenza che già collabora con Rete Iter in altri progetti. Le forme attraverso cui questo progetto può concretizzarsi sono tante: da “gruppi classe” (o gruppi di giovani formati ad hoc con criteri differenti) che “traslocano” per qualche settimana da nord a sud (e viceversa) a singoli studenti che – proprio con il criterio Intercultura – frequentano qualche mese una scuola in un’altra città e regione, vivendo in una famiglia ospitante.
L’obiettivo, ora, è quello di definire meglio e concretizzare un’idea molto bella alla quale Laboratorio Adolescenza cercherà di dare il massimo contributo.
Dirigente scolastica